di Giuseppe Bonagiuso
Cercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere della terra bruta o da ciò che essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un'immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere: questa è l'arte. J. Joyce, Dedalus
Questa bellezza che non sanno creare nè la natura nè l'arte, e che si dà soltanto quando queste due s'uniscono: quando all'abborracciato e spesso ottuso lavoro dell'uomo viene a dar l'ultimo colpo di cesello la natura, e alleggerisce le masse pesanti, toglie la cruda regolarità (...) conferisce un meraviglioso tepore a ciò che fu concepito nel gelo della spoglia, rigida esattezza. Gogol, Le anime morte
Potrei dichiarare con assoluta verità d'avere conosciuto il segno grafico - pittorico, scultoreo, ed oggi anche artigianale - di Carlo La Monica, insieme a quello - forse anche più macroscopico - con cui Ludovico Corra ha saputo creare, da una catafore, un museo a cielo aperto, e - cosa di cero ancor più architettonica per la coscienza - una speranza e una meta. Questo museo, questa speranza, è Gibellina nuova. Una città che non esiste come città, come dimensione privata, come mausoleo burocratico, ma piuttosto come simbolo concreto di una resurrezione possibile. Gibellina come opera d'arte nasce proprio in quanto testimone di un tragico passare del vissuto attraverso la morte e la distruzione, Gibellina, come segno, nasce, tuttavia, in virtù del segno d'altri. La sua identità - come città,come storia, come luogo - è l'identità frammentaria e polifiletica dell'inter-cultura. Tra i segni - macroscopici e microscopici - che hanno contribuito a fare questa città surreale, risiedono impronte decisive ( il cretto di Burri, la gigantomatiche scenografiche di Consagra, i Contrappunti di Melotti, le architetture di Venezia= e opere laboriose - interne per così dire - che hanno cercato di leggere la presenza dell'uomo nella forma intellettuale voluta da Corrao.E' il caso degli archetipi negativi di Carlo La Monica, la cui opera va letta in simboli con la nuova Gibellina, e con i percorsi e le impronte che il segno d'altri ha modellato su questa terra. La Monica inventa, per così dire, una scrittura arcaica, una scrittura connettiva che mette in evidenzia il legame dell'uomo originario (quello legato alla terra, alla stanzialità dei raccolti, alla coltivazione dei campi ) con l'uomo costretto al nomadismo. Un nomadismo deregolamentato, non istituzionale, dettato dalla violenza del sisma e della catastrofe dei senzatetto. La Monica inventa una scrittura, dunque, proprio nella misura in cui la cerca e la trova all'interno di questa contraddizione, fatta di ceppo stanziale e necessità nomadica, di radicamento e di esilio forzato. Gibellina infatti, sorge oggi laddove non era stata ieri. La sua storia accusa uno strappo, una soluzione di continuità tra il ricordo e la speranza. La Monica legge questo trauma della memoria costruendo una serie di simboli segreti in grado di collegare la storia alla cronaca, ciò che precedette la macerie a ciò che è seguito al sisma. Tutto quello che il terremoto ha distrutto, affiora, allora, per via privativa, nell'opera dell'artista gibellinese: i suoi archetipi (le forme originarie) sono infatti, negativi. E spesso si tratta di archetipi di cui il negativo andato distrutto. La Monica ha dunque un merito di fondo nella storia dell'arte gibellinese. La sua opera è infatti, prettamente straordinariamente locale. Locale, non localistica, si badi, che l'intervento dell'artista sulla materia pittorica o scultorea avviene sempre in una continuità di senso, e di espressione che ne determina un'intera coerenza. L'archetipo negativo, dunque si propone di costruire faticosamente un segno di inter-relazione tra l'apparente esteticità dell'intellettualismo illuminista e la sorgiva energia, tipica del modulo agreste e contadino, che promana dalla memoria delle cose e dei luoghi dell'antica Gibellina. La Monica insomma, cerca di cucire con il suo racconto l'archeologia e la prospettiva, il sogno ad occhi chiusi e quello ad occhi aperti, il crudo realismo delle pietre e la volontà emozionale dei colori. E sebbene io resti ancora convito che la migliore produzione di La Monica (migliore in quando unica, impossibilitata com'è a ripetersi nell'esperienza già consumata della ricostruzione) sia da rintracciare negli anni più vivi del contatto e del conflitto con l'opera di Angeli, Schifano, Cascella, etc...ovvero quella dominata da una sobrietà cromatica assolutamente essenziale e rigorosa, resta meritorio il compito di dedicare questo vernissage ad un artista che ha sempre raccontato Gibellina con la rude fermezza di mani che sanno ancora immergersi nella Terra.