di Enzo Adamo
La dimensione indeterminata dell'esperienza artistica elude regole gerarchie e precetti della ragione calcolante configurandosi in un costante processo di rammemorazione-riformulazione dell'arcaica fondativa separazione tra mytos e logos, tra immaginazione e ragione. Tuttavia, l'arte inesorabilmente, resta rappresentazione dell'esserci storico dell'uomo ne mondo (nella polis), del rapporto con esso nelle forme della sua esistenza pubblica, della sua dialettica con il Potere. Questo la assume la piega alla logica della propria conservazione, rendendola a sé organica come consolazione, fungibile all'esigenza di dare ordine al caos del mondo. Nell'epoca della sua " riproducibilità tecnica" il piano della produzione del sensibile e dell'immaginario non resta che quello della Tecnica ovvero della forma epigonale della modernità, del primato della ragione scientifica pragmatica economicistica, della reductio ad unum di ogni soggettivato e pluralità nell'assunzione feticistica dei media ipertecnologici. La tecnica, allora, si propone come orizzonte insuperabile e universo autocentrato, autotelico Impostura, maschera, forma assoluta dietro cui occultare il caos e l'orrore del presente, la gestione della storia da parte di un potere apparentemente metafisico, neppure necessitato (come prima) a giustificare l0ingiustificabile. Allora, l'artista deve esercitare un contro-potere, incarnare una multiforme esperienza resistenziale, ha l'obbligo di imporre una diversa forma alla vita, la sua libertà non è la proiezione creativa dell'agire ma lo spazio disperatamente conteso al potere. La sua pratica sarà quella del primato dello stile sull'ideologia, esso consente la sola forma possibile di ottimismo, l'unica via di fuga e di rifiuto dei vessilli dell'ideologia del potere. Coerente e radicale dunque la risposta coniugata da Carlo La Monica, nell'operare un grado zero dello stile con il ricorso a forme archetipiche, negative, ovvero destituite e prive di significato, sempre ambiguo e quindi mistificante. Se ogni segno è quello dell'autoaffermazione del Potere, quello della sua volontà di potenza, la storia del segno è la storia dell'uomo, esso indica l'inizio di ogni civiltà, l'affacciarsi della storia in quanto di un sistema di domino che sii fonda. Non a caso, il passaggio dal Paleolitico al Neolitico, dalla preistoria alla storia, allo stato di civiltà, viene maturato attraverso il ricorso al segno, linguistico o iconico, ossia ad un linguaggio che formalizzi e consenta i rapporti di preminenza e di sudditanza tra gli individui. I segni primi, esclusivamente scalfiti su pietra o su legno, creati nelle forme negative dell'incisione, precedono la civiltà, ne rappresentano gli archetipi, ancora veri perché non caricati del significato. Pura immagine visiva deprivata della componente veicolante le logiche e le funzioni dei poteri storicamente determinatisi, luogo dell'assenza di ogni arbitrarietà e ambiguità. E se la dimensione in cui il Potere migliore si rivela, è eminentemente teatrale, attraverso la vasta folla delle sue comparse, dei suoi riconoscibili simboli, il recupero degli archetipi negativi, nella loro nudità semantica, segnica mente e concettualmente collocano Carlo La Monica all'interno delle esperienze più avvertite nella nostra situazione. La pressione del segno e la cura dei dettagli nell'assenza di soggetti reali evocano in una geometria policroma e in un disegno ricco e di efficace spessore quelle forme essenziali e originali che, veicolate attraverso i millenni dell'iconografia rituale e mitologica, si trovano oggi sedimentate nell'immaginario collettivo. Anche nelle rare prove figurative, "Gibellina nella memoria" si avverte la denuncia di ogni proposito simbolico o celebratico, una essenzialità di segno e volumi che spinge indietro ad una dimensione astorica e mitologica, sottratta anch'essa a funzioni e fruizioni inautentiche che non siano quelle svolte sul piano psicologico della individuale storia personale e in questa evocazione a auto riconoscimento negli archetipi negativi e mitici che si consuma ancora una volta la mistificazione della funzione estetica di ogni forma d'arte.